XXII.

L’Arcadia e il Metastasio

1. Preparazione e nascita dell’Arcadia

Alla ripresa tra fine Seicento e primo Settecento di elementi dell’eredità del pensiero rinascimentale e sperimentale, rinnovati dal maggiore contatto con la cultura, la filosofia e la scienza europea nei suoi aspetti razionalistici ed empiristici, corrisponde nella letteratura e nell’attività poetica un movimento che, partendo da premesse di distacco e di opposizione al barocco già attive negli ultimi decenni del Seicento, culmina nella fondazione dell’Arcadia e nella letteratura da questa promossa nella prima metà del nuovo secolo.

In varie zone d’Italia infatti si assiste già sullo scorcio del Seicento ad un crescente dissenso dalle forme della letteratura barocca con il suo lusso metafisico e con il suo gusto sensuale e artificioso: dissenso che è motivato anzitutto da istanze non solamente letterarie, ma morali e filosofiche di nuova chiarezza razionale, di nuova attenzione alla realtà, di nuovo comportamento morale piú sicuro e fiducioso nei valori della razionalità e della naturalezza. Tale dissenso in campo letterario si traduce in un nuovo desiderio, in una nuova volontà poetica, spesso ancora incapaci di adeguata realizzazione artistica, ma certamente diretti ad un tipo di poesia piú sostanziosa, piú sobria, che si appoggia – di contro alla ricerca barocca di una novità sorprendente e antitradizionale – alla ripresa dello studio dei classici antichi e dei classici italiani, dal Petrarca agli scrittori rinascimentali.

Forte è in tale nuova direzione antibarocca il contributo della letteratura toscana, nella quale (per la sua stessa scarsa congenialità con il barocco piú estremo già nel pieno del Seicento e per la presenza della grande scuola galileiana e dell’attività dell’Accademia della Crusca, conservatrice della lingua tradizionale e rinascimentale) già scrittori da noi ricordati nel Seicento, come il Redi o il Magalotti, presentano caratteri chiari di dissenso con il barocco e tendono a portare nella stessa poesia ideali e forme di piú sciolta naturalezza, di un’immaginosità piú controllata, di linguaggio animato e vivace, ma corretto e chiaro, ben comprensibile e comunicabile.

E a questo nuovo impulso – che tanto deve al contatto fra scienza sperimentale e letteratura – rispondono in sede preminentemente letteraria scrittori come il fiorentino Benedetto Menzini (1646-1704) con le sue satire volte insieme a criticare il costume insincero, la falsità morale, l’atteggiamento egoistico e prepotente dell’epoca barocca, e la disorganicità e vuotezza della poesia barocca ammantata di oscurità e di sfarzo concettoso, a cui egli contrappone (specie sulla base dell’esempio petrarchesco) l’ideale di una poesia piena di saggezza individuale e civile ispirata alle cose «belle e buone», agli spettacoli rasserenanti della natura, e uno stile «puro e terso», un discorso poetico organico, coerente ed elegante, aderente alle idee e sentimenti che vi si vogliono esprimere. Questo gusto di chiarezza, comprensibilità, di ordine mentale e stilistico si può ritrovare, pur nella sua ricerca di toni piú alti, eroici e nobili, anche nelle poesie di Vincenzo Filicaia (Firenze 1642-1707), tanto a lungo ammirate come esempio di una nuova poesia a fondo eroico, celebrativo e patriottico (le famose canzoni per Vienna assediata dai Turchi e liberata dal principe Eugenio di Savoia o altre canzoni e sonetti per l’Italia decaduta ed esortata a risalire alla sua antica grandezza) e che, intimamente assai povere e retoriche, comprovano però, nella loro costruzione regolare e ben articolata, nel loro linguaggio eloquente, ma chiaro e decoroso, l’adesione di quello scrittore alle linee di un gusto non piú barocco, tipico di questa zona «prearcadica» toscana, certo la piú importante per la preparazione delle esigenze stilistiche antibarocche dell’Arcadia.

Ma non si dovrà neppure trascurare in questa preparazione dell’Arcadia l’efficacia di alcuni scrittori dell’Italia settentrionale e soprattutto della Lombardia che, in una situazione diversa da quella toscana (dove, ripeto, le esigenze scientifiche sostengono piú direttamente il distacco letterario dal barocco), ma ricca di forti impulsi morali e religiosi, danno varia espressione poetica alla nuova volontà di una poesia piú seria e meditata di quella barocca, di cui essi personalmente avevano fatto giovanile esperienza, rifiutandone poi la «lascivia», sia in senso morale sia in senso letterario.

Piú ambigua e incerta fra una religiosità piuttosto dolciastra e aggraziata e una spinta melodica che anticipa un elemento cosí importante nella poesia arcadica, è la produzione del lodigiano Francesco De Lemene (1634-1704), famoso per una serie di madrigali religiosi, il Rosario di Maria Vergine, mentre piú profondamente seria ed energica nei suoi sicuri motivi religiosi e morali e nel suo stile piú disadorno e scabro, ma pur teso alla chiarezza e al rifiuto degli aspetti barocchi è la poesia del milanese Carlo Maria Maggi (1630-1699), autore di vigorose rime in italiano nonché di versi dialettali particolarmente vivi per un loro pacato realismo e per un fondo di moralità saggia e di critica rappresentazione di vizi e di frivolezze, che anima (come diremo piú avanti parlando del teatro arcadico) anche le sue commedie dialettali.

Personalità piú risentita e non priva di piú forti impulsi poetici, anche se spesso piú abbozzati che organicamente espressi, è infine quella del pavese Alessandro Guidi (1650-1712) che, dopo una giovanile adesione ai modi barocchi, venne evolvendosi verso una nuova poesia grandiosa, celebrativa di personaggi eroici, di atteggiamenti morali sdegnosi e severi, e insieme cercandone una espressione stilistica piú controllata e organica, e pure libera e originale, anche mediante l’adozione di una «strofe libera» adatta a quella specie di disciplina autoregolantesi con cui il Guidi voleva aderire alle nuove esigenze antibarocche senza cadere in una diversità poetica troppo smorzata e dimessa. Tale difficile impresa trovò i suoi esiti piú interessanti nell’ultima fase della sua lunga carriera poetica, soprattutto in alcune canzoni celebratrici della fondazione e delle nuove idealità dell’Arcadia romana, in cui la tensione impetuosa e grave di questo scrittore riesce a costruirsi entro un discorso poetico piú fluente e dominato di meditazione altamente elegiaca e indubbiamente suggestiva sui resti e sulle rovine grandiose dell’antica Roma, rappresentate in quadri larghi, eloquenti e commossi entro un’atmosfera densa e malinconica di notevole efficacia.

2. La fondazione e il significato dell’Arcadia

Il Guidi come il Menzini trovarono protezione a Roma (la città in cui nascerà l’Arcadia) da parte di quella ex-regina di Svezia, Maria Cristina, che aveva fondato, nel 1674, un’accademia propria, raccogliendovi personalità letterarie romane o confluite da varie parti d’Italia, e unite nel comune denominatore del distacco dal barocco e nel tentativo di dar vita ad una nuova poesia.

Ma l’accademia «privata» di Maria Cristina fu solo un anticipo dell’accademia di Arcadia, la cui fondazione nel 1690 costituí il piú energico sforzo di organizzazione letteraria nazionale nel nome del nuovo «buon gusto» contro il «malgusto» barocco e nella volontà ambigua di «riformare» ogni aspetto e genere della letteratura accordando esigenze moderne con la ripresa di quella tradizione (dai classici al Cinquecento) che il barocco sembrava avere totalmente spezzato e rifiutato.

Perciò la nuova accademia – organizzata con una sede centrale a Roma e «colonie», o sedi minori e filiali, che si andarono creando in quasi tutte le città maggiori e minori dell’Italia, ma che alla sede (o «serbatoio») romana e al custode generale facevano capo – volle darsi un nome e un cerimoniale ispirati al nome della mitica regione della Grecia antica, favolosamente immaginata (e si ricordi come ad essa si ispirasse l’opera Arcadia del quattrocentesco Sannazaro) quale terra abitata da pastori, dediti ad una vita semplice e naturale e al culto e all’esercizio della poesia.

Cosí i nuovi «pastori» dell’Arcadia romana (che presero pseudonimi greci e adottarono nelle loro riunioni nel Bosco Parrasio usi ed emblemi pastorali, combinati con elementi della religione cattolica in ossequio ad essa ma anche alla protezione data all’accademia dalla Curia papale) intendevano sottolineare la loro ricerca di una semplicità e schiettezza naturale nella letteratura, di contro all’artificiosità e al lusso verbale della letteratura barocca, di cui essi dichiaravano solennemente di voler combattere ogni residuo e sopravvivenza.

Di fatto è facile osservare quanto di artificioso si celasse in quel complicato cerimoniale e travestimento pastorale e quanto di velleitario ci fosse in quell’assoluta fiducia di completo distacco dal barocco e di realizzata e totale schiettezza, semplicità e naturalezza della nuova letteratura arcadica, il cui pericolo consisteva proprio nell’opporre allo sfarzo tumido e gonfio del barocco una semplicità spesso artefatta e molto spesso una estrema gracilità di contenuti e una nuova forma di evasione letteraria dalla realtà e dalla storia. Tanto che tradizionalmente il nome di Arcadia e di letteratura arcadica è divenuto sinonimo di una letteratura oziosa, evasiva, priva di impegni e di sostanza umana e storica.

Ma, dopo tanti violenti attacchi (già nel Settecento ad opera del Baretti e poi nella nostra letteratura risorgimentale) alla falsità, puerilità e vuotezza dell’Arcadia, occorrerà (come è già avvenuto da tempo nella storia della critica letteraria novecentesca) pur riconoscere come, sotto la convenzione pastorale e sotto i pericoli indicati, vi fossero nella letteratura arcadica (che corrisponde soprattutto ai primi decenni del Settecento) elementi importanti, specie la sua funzione di nuova educazione stilistica, le cui esigenze di chiarezza, comunicabilità, organicità del discorso poetico, di attenzione minuta alla psicologia umana e alle forme di una realtà concreta, segnano indubbiamente un distacco dal barocco. E aprono – pur fra tanti equivoci e tanto sovrabbondante esercizio poetico spesso poverissimo e convenzionale – l’inizio di una ripresa della tradizione e della sua coscienza letteraria e stilistica, l’inizio di una letteratura che, dopo la crisi del barocco, mira a tradurre nelle sue istanze letterarie di verisimiglianza, di chiarezza, di organicità, le nuove spinte della filosofia razionalistica e le nuove esigenze di un costume e di una mentalità piú socievole e civile, piú cordiale e fiduciosa nei valori della ragione e della natura, preparando cosí aspetti ed elementi della letteratura piú impegnativa e veramente rinnovatrice del secondo Settecento.

Né si dimentichi, su di un piano piú generale, come la stessa organizzazione nazionale dell’Arcadia rispondesse ad una rinnovata esigenza di maggiore rapporto fra i vari centri cittadini e regionali italiani tanto piú isolati durante il Seicento, e come le riunioni degli arcadi corrispondessero e contribuissero a quel nuovo bisogno di socievolezza, di comunicazione, di gusto del rapporto umano e colto, di una società che si va facendo sempre piú vivace, attiva, civile (in cui trovano un primo incontro, nella cultura e nella letteratura, uomini di un’aristocrazia che va perdendo i piú aperti caratteri di alterigia e di arbitrio dell’epoca semifeudale del Seicento e uomini di una borghesia in lento processo di elevazione e affermazione, pur fra remore e limiti, che solo l’illuminismo verrà piú vigorosamente denunciando e combattendo) e aprendosi alla simpatia e alla considerazione degli strati popolari.

E cosí lo stesso programma del «buon gusto» arcadico, anche se spesso troppo unicamente letterario, andrà compreso piú generalmente nel suo significato piú vasto: buon gusto non solo come correttezza ed eleganza nella letteratura, ma buon gusto anche nel vivere socievole, capacità critica nell’uso della ragione contro vecchi pregiudizi e ottusa arretratezza in ogni campo della cultura, della vita. E dunque «riforma letteraria», ma legata a un generale desiderio di riforma nelle scienze, nella filosofia, nella storiografia, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

Nella generale spinta del rinnovamento razionalistico si stabilisce un nesso fra cultura e letteratura. Anzitutto la nuova erudizione e storiografia si applicherà anche alle ricerche e alle prime ricostruzioni della storia letteraria nazionale quali sono l’Istoria della volgar poesia del Crescimbeni, l’Idea della storia dell’Italia letteraria di Giacinto Gimma, l’opera piú strettamente erudita di Giusto Fontanini, Della eloquenza italiana, o il trattato Della storia e della ragione di ogni poesia di Francesco Saverio Quadrio che si allargava allo studio e alla storia della poesia greca, latina e italiana.

Ma già in alcune di queste storie e in altri saggi e trattati le nuove esigenze del gusto si precisano in una copiosa e feconda trattazione di problemi estetici e critici che rappresenta l’offerta piú imponente e feconda della cultura letteraria di primo Settecento. A parte la tanto piú geniale meditazione estetica del Vico, già ricordammo le opere estetiche e critiche del Muratori, ben significative per lo sforzo che l’estetica e la critica dell’epoca arcadica compiva per giustificare il distacco dal barocco e la ripresa della tradizione e dei classici, avvalendosi della nuova arma del razionalismo, ma insieme cercando di salvare una concezione della poesia che non cadesse nelle formulazioni rigidamente razionalistiche dei teorici e critici francesi (donde l’importanza generale che per l’estetica di primo Settecento ebbe la lunga polemica con i francesi, iniziata dall’opera dell’Orsi in risposta alle posizioni e agli attacchi alla poesia italiana presenti nel trattato del Bouhours, La maniera di ben pensare nelle opere di spirito) e variamente giungendo a intuizioni estetiche e critiche fondate sull’equilibrio fra ragione e fantasia, fra didascalismo ed edonismo, che pur sempre facevano risaltare la necessità della fantasia e dell’ispirazione poetica.

Sarà cosí la formula della poesia come «sogno fatto in presenza della ragione» (che ne autorizzi i «sogni» distinguendoli dalla pura verità logica ma esigendo da essi il rispetto della «verosimiglianza» e dell’interna coerenza) quale risulta nell’opera estetica-critica di Tommaso Ceva. O sarà la formula, piú mediocre, ma – come vedremo – assai efficace nella promozione della letteratura arcadica creativa, di un equilibrio fra «bellezze interne» (pensieri, contenuti effettivi e ideali) e «bellezze esterne» (le qualità formali) che anima l’opera di storia letteraria e il trattato, Bellezza della volgar poesia, del Crescimbeni. O, piú profondo frutto di una meditazione estetica piú complessa e originale, sarà la concezione di una poesia e di una «scienza poetica» liberate dalle angustie della retorica e rivelatrici di verità essenziali, di motivi di civiltà nella fantastica compendiosità di miti poetici, quale si può ricavare dalle opere estetiche e critiche del Gravina: il Discorso sopra l’«Endimione» del Guidi e soprattutto il trattato Della ragion poetica (1708), che, alla luce di tali idee, richiede ai poeti moderni una ripresa della grande tradizione di poesia mitica e didascalica dei greci (anzitutto Omero) e dei «liberi imitatori» di essi, latini e italiani (soprattutto Dante e poi Ariosto). Certo in campo piú specificamente letterario-creativo la forza di riforma innovatrice appare minore e piú limitata di quella che promosse nella stessa epoca la nuova erudizione e cultura storiografica e politica. E certo la stessa letteratura arcadica offre contributi e stimoli nuovi e piú fecondi in sede di pensiero estetico e critico, di programmi e di proposte assai spesso superiori alle loro possibilità di realizzazione concreta in nuove opere letterarie e poetiche, specie quando quelle proposte puntano sull’ideale di una poesia grande e potente, ricca di forti e drammatiche passioni. Ché la via realmente piú aperta alle realizzazioni artistiche nell’epoca arcadica è quella di una poesia patetica e gentile, sincera particolarmente in una sua medietà idillica ed elegiaca, in un suo gusto di una grazia gustosa, miniaturistica e melodica, nella resa acuta e leggiadra delle vibrazioni psicologiche e patetiche (specie nella lirica e nel melodramma) o nel brio di una comicità e di una parodia eleganti e vivaci.

3. Le discussioni e i programmi dell’Arcadia: Gravina e Crescimbeni

È alla luce di tale piú sincera tendenza dell’animo arcadico che si può capire come la contesa apertasi nell’Arcadia fra due dei suoi maggiori fondatori e componenti, Gravina e Crescimbeni, dovesse finire con la pratica vittoria del secondo, tanto piú mediocre e limitato, ma tanto piú coerente e vicino alle vere possibilità e al gusto piú genuino della letteratura militante del tempo.

Infatti Gian Vincenzo Gravina (nato a Roggiano Calabro nel 1664 e morto nel 1718 a Roma dove – dopo un giovanile e fervido periodo napoletano – era stato professore insigne di «leggi civili» e di diritto canonico) proponeva all’Arcadia un programma letterario e un tipo di poesia arduo e severo, fondato su di un forte classicismo e su di una concezione della poesia (lo vedremo accennando alla sua attività estetica) che fondesse nel mito poetico una profonda sostanza di forti sentimenti e di originali pensieri e cosí fosse capace di incidere profondamente nella storia umana e nel suo progresso spirituale e civile, rifiutando il lusso fastoso e vacuo del barocco, ma insieme anche ogni semplice eleganza formale e ogni ozioso e raffinato carattere di divertimento e di ornamento privo di profondi scopi e di profonde verità. In quella proposta, che ben poteva schernire le «mascherate» pastorali dell’Arcadia e richiedere insieme alla nuova accademia caratteri di estrema serietà anche nella sua costituzione e organizzazione libera e democratica, confluivano la concezione estetica e la forte personalità del Gravina, nutrita di severi studi filosofici e giuridici (che ebbero espressione in importantissime opere giuridiche di fama internazionale), energicamente anticonformistica, ostile ad ogni forma di passività e compromesso, tesa ad un profondo rinnovamento della vita intellettuale e morale, che trova espressione nella polemica antigesuitica dell’Hydra mistica, nel tentativo (poeticamente fallito, ma ideologicamente molto interessante) di creare proprie tragedie, nella presa di posizione contro l’ambiente curiale e assai conformistico della Roma del tempo.

Tanto piú modesta e mediocre era invece la personalità di Giovan Mario Crescimbeni (Macerata 1663-Roma 1728) che, mentre trovava tanto piú facile possibilità di movimento e di accordi nell’ambiente romano, anche nel campo delle proposte di ideali, modelli, programmi letterari da offrire all’Arcadia poteva tanto piú facilmente incontrare il favore di una società letteraria, e non solo letteraria, attratta dal nuovo «buongusto» soprattutto nei suoi caratteri di eleganza, di leggiadra semplicità, di vivacità e acutezza di analisi e resa di sentimenti patetici coronati da un sostanziale ottimismo e da una fondamentale letizia nella fruizione della vita e delle sue offerte naturali, ragionevoli e socievoli.

A tale inclinazione prevalente della società arcadica la proposta severa del Gravina mal si confaceva, mal si confacevano i grandi modelli di Omero o di Dante, laddove tanto piú praticabile e accettabile non poteva non apparire la proposta crescimbeniana di una poesia che amava sí i classici, ma come riportati in un cerchio di proporzioni miniaturistiche e di sentimenti piú leggiadri e piacevoli, piú facilmente dominabili in un’espressione preziosa e aggraziata, in un accordo elegante di «bellezze interne» e di «bellezze esterne» (la formula già ricordata dell’estetica del Crescimbeni) a cui tanto coerente era lo stesso uso melodico della rima (che il Gravina aveva fieramente avversato come inutile lusinga dell’orecchio) e a cui piú potevano corrispondere i modelli della tradizione che il Crescimbeni proponeva: non Omero e Dante, ma il Petrarca, soprattutto riveduto nelle forme del petrarchismo cinquecentesco nei suoi rappresentanti piú eleganti e preziosi.

Cosí lo stesso scontro fra Crescimbeni e Gravina a causa delle leggi costitutive dell’Arcadia (che il Gravina avrebbe voluto piú democratiche contro il predominio eccessivo del Custode generale, il Crescimbeni) finí con la vittoria del Crescimbeni, non solo pratica (lo scisma del Gravina e la fondazione di una nuova accademia non ebbe successo), ma anche in sede di gusto e di direzione di attività poetica.

Come si può vedere anzitutto nel campo della lirica.

4. La lirica arcadica

Nella lirica arcadica forte è la presenza del Petrarca e del petrarchismo cinquecentesco come modelli poetici del «genere» lirico, scuola di indagine psicologica specie nel sentimento amoroso, di linguaggio e di stile elegante e insieme sobrio e lontano dall’immaginosità sforzata della lirica barocca.

Ma in realtà una maggiore aderenza alla lezione piú propria del Petrarca si può riconoscere solo in un particolare gruppo di rimatori: quello degli arcadi bolognesi, al cui centro si profila una personalità poetica ben precisa e capace di realizzare nelle sue rime l’aspirazione piú programmatica di questi «fedeli del Petrarca». Si tratta di Eustachio Manfredi (1674-1739) famoso scienziato, ma anche letterato finissimo e poeta che, in una breve stagione produttiva particolarmente sincera (e dunque in una posizione che assai lo distingue da quella specie di assiduo impegno creativo di occasione tipico di tanti rimatori arcadi, piú obbligo di società che soddisfazione di un’intima necessità), dette vita ad un piccolo gruppo di poesie che, mentre utilizzano con particolare aderenza la grande lezione del Petrarca, la ravvivano però con una partecipazione e un rinnovamento ben personale, alla luce di una vicenda sentimentale e spirituale autobiografica, centrale nella vita dello scrittore.

Il tema della monacazione di una fanciulla, che fu per tanto tempo nel Settecento tema di occasione per poesie encomiastiche oziose e convenzionali, costituí invece il tema centrale e fecondo della migliore poesia del Manfredi, che aveva amato la giovane Giulia Caterina Vandi e che, quando essa, spinta da una vocazione profonda, scelse la vita claustrale, visse un complesso dramma interiore, preso com’egli fu fra il dolore della perdita della donna amata e l’ammirazione profonda (incentivo come di un nuovo amore tutto spirituale) per quella vocazione cosí sincera e ulteriore prova della nobiltà spirituale della fanciulla di cui egli, amandola, aveva saputo ben riconoscere l’eccezionale altezza pari, e superiore, alla sua bellezza gentile.

Su questo delicato intreccio di nostalgia e di entusiasmo spirituale il Manfredi seppe coerentemente creare – rivivendo originalmente le qualità piú intime e le forme piú delicate dell’introspezione e dello stile petrarchesco – alcune poesie che spiccano nella produzione del tempo per una gentilezza e purezza di toni e di disegno certo intonate alla generale disposizione arcadica alla delicatezza, alla vibrazione sentimentale e alla loro traduzione in forme corrette e nitide, ma diversamente portate, piú che alla leggiadria piacevolmente patetica tipica della maggior parte della lirica arcadica, ad una levità e nobiltà di limpida commozione, ad un intenso e delicato fervore, ad un disegno ritmico e melodico piú sottile e pensoso.

Il caso del Manfredi, e del suo petrarchismo piú fedele e pure originalmente rinnovato, rimane però – come sopra dicevo – assai isolato nelle piú forti tendenze della lirica arcadica che, nel suo sviluppo nel primo Settecento sempre piú indirizzato ad un petrarchismo cinquecentesco, sono attratte da una poesia aggraziata e leggiadra, patetica e miniaturistica, che nel giro breve del sonetto o in quello piú ampio ma anch’esso poco complesso e agile di piccole canzoni o «canzonette», esprime sentimenti tenui e teneri, entro piccole e minute scene e in forme cantabili e melodiche.

Sicché anche quando, come nel caso della poetessa Petronilla Paolini Massimi (in Arcadia Fidalma Partenide), l’impostazione dei componimenti sembra piú dolente e severa, in realtà il fascino della grazia melodrammatica prevale e tramuta i contenuti piú dolorosi in scenette limpide e sospirose rasserenate dalla melodia e dal piacevole gusto di un disegno miniaturistico.

Perciò chi voglia apprezzare, per quello che essa realmente può offrire, questo tipo di lirica minore, non può chiedere ad essa forza espressiva e robusta passione, e, mentre diffiderà di certi componimenti volti al grandioso e all’eroico e di fatto retorici e fastidiosi (piú corrispondenti a certe velleità che non alle concrete possibilità di quell’epoca), cercherà piuttosto il meglio della poesia arcadica proprio nei suoi componimenti piú teneri e patetici, volti ad esprimere sentimenti e affetti amorosi o familiari in forme aggraziate ed eleganti, ben corrispondenti ad una società che in esse realizzava il proprio animo piú vero, il proprio gusto di una vita socievole, e osservata piú nei suoi minuti particolari che nella sua piú profonda e drammatica completezza.

E cosí sempre piú leggiadri sonetti e amabili canzonette prevalgono sulle canzoni solenni e complesse, e in quelli sempre piú nitidamente si esprime una lieve, ma sincera tensione vitale, fondamentalmente ottimistica e assicurata ad una visione della vita fiduciosa e piacevole, nel suo distacco dall’enfasi e dal turgore tetro o sensuale dell’epoca barocca, e nel suo lento procedere in una minuta e prudente affermazione dei nuovi valori della razionale e naturale saggezza, dei nuovi rapporti di amorosa galanteria. Donde il piacere, in tante canzonette, delle varie stagioni dell’anno nelle loro diverse offerte sempre piacevoli e il prevalere del tema amoroso con le sue vicende dolci-amare, ma sempre infine rasserenate in esiti idillici e non drammatici.

E cosí si potrà – pur sentendone i chiari limiti di attenuazione e di grazia a volte troppo dolciastra e leziosa, e la lontananza dalla piú vera e robusta poesia – gustare il fine ed elegante rilievo di scenette naturali e patetiche, la sicurezza della coerenza miniaturistica e melodica di brevi e sottili analisi della situazione amorosa e affettiva tradotta in chiare, concise ed eleganti pitture poetiche.

Uno degli esempi piú gradevoli dell’abbondantissima produzione della lirica arcadica è il gentile, piccolo canzoniere che Pier Jacopo Martello (che poi ricorderemo per le sue opere teatrali) compose per la morte del figlioletto Osmino e in cui la rievocazione sentimentalmente sincera delle grazie incantevoli del fanciullino, precocemente strappato agli affetti familiari e all’amore del padre, si risolve, entro il breve e abile giro del sonetto, in rappresentazioni gentili, soavi e melodiche di ricordati e vagheggiati momenti felici perduti, di presentimenti teneri e struggenti di quella morte, di piccoli oggetti della realtà quotidiana o di elementi di un tenue e leggiadro paesaggio naturale.

O si pensi ai sonetti amorosi e familiari della poetessa romana Faustina Maratti Zappi (1680-1745), in Arcadia Aglauro Cidonia, tanto piú sinceri e gustosi di certi altri suoi sonetti enfatici esaltanti le virtú delle antiche donne romane. Ché anche in questo caso l’esercizio di una poesia grandiosa ed energica era soprattutto una sterile velleità, mentre la via piú congeniale della piccola poetessa era quella di un’animazione vibrante e leggiadra, patetica e melodica, ben avvertibile appunto in molti dei suoi sonetti scritti per esprimere il suo fedele, costante amore per il marito, le alternanze di quell’amore fra dolcezza appagata, pene di gelosia, dolore per la lontananza e, poi, per la morte dell’amato, in una lieve e gentile vicenda poetica singolarmente delicata e acuta nell’analisi e svolgimento dei sentimenti e nella loro rappresentazione in scenette ben graduate, misurate, accordata con gentili elementi di paesaggio, animati da una simpatia che li chiama a partecipare alle pene e alle gioie della scrittrice.

E proprio nella direzione del sonettismo arcadico con il suo fondo melodrammatico e con la sua capacità miniaturistica e melodica si precisano le qualità artistiche migliori del marito della Maratti, quel Giambattista Felice Zappi di Imola (1667-1719) che, per certo eccesso della sua grazia illeggiadrita fino ad una leziosità stucchevole, diverrà poi principale oggetto della polemica antiarcadica del Baretti (che lo chiamerà «inzuccheratissimo») ma che, visto in una prospettiva storica piú equa e distaccata (e non perciò meno chiara nel denunciare gli eccessi quasi caricaturali della sua peggiore e piú sdolcinata maniera), potrà pur mostrare, nei suoi sonetti piú equilibrati e contenuti, una sua innegabile abilità artistica e un suo significato nella tendenza miniaturistica e melodrammatica della lirica arcadica. Egli infatti porta avanti e realizza i suoi migliori sonetti amorosi (appoggiati al modello petrarchistico e a certa ripresa di spirito anacreontico: Anacreonte fu il poeta greco piú sinceramente amato dai rimatori arcadici) il gusto miniaturistico di piccoli melodrammi svolti e conclusi nel breve spazio del sonetto, la tendenza arcadica a far rifluire una sottile analisi nel breve spazio del sonetto e lievi vicende sentimentali nel tenue e limpido quadro di un idillio pastorale, in cui ninfe, pastori, amorini riflettono nella loro aggraziata mitologia vivaci e teneri sentimenti della galanteria amorosa del tempo arcadico.

Certi sonetti dello Zappi (come quello che, sullo sfondo suggestivo di un cielo notturno e poi rischiarato dall’alba, canta e disegna un distacco doloroso ed esitante fra un cavaliere e una dama chiaramente settecenteschi, pur nel loro travestimento pastorale) sembrano come anticipare – con tanto minore poesia e dal seno di questa lirica di miniaturistici melodrammi racchiusi in un sonetto – i procedimenti metastasiani della «perplessità» e del tormento tenero e struggente dell’amore, l’incontro metastasiano di voci tenere e melodiche sullo sfondo di una scena sobria e suggestiva.

Al culmine dello sviluppo della lirica arcadica si colloca l’opera poetica di Paolo Rolli (Roma 1687-Todi 1765). Allievo del Gravina e arricchito nel suo lungo soggiorno a Londra (da cui rientrò solo nel ’44 per ritirarsi nella tranquilla solitudine di Todi, città nativa della madre, e passarvi una serena vecchiaia) di lunghe esperienze culturali e poetiche (la nuova scienza newtoniana, la nuova filosofia sensistica, la poesia francese e inglese da cui tradusse il Paradiso perduto di Milton, mentre fu traduttore di classici: le odi di Anacreonte e le Bucoliche di Virgilio), il Rolli portò nel gusto arcadico nuovi elementi di piú forte evidenza plastica e figurativa, rafforzata sia dalla lezione di perspicuità incisiva dei classici sia dal nuovo gusto sensistico (le idee ci vengono attraverso le sensazioni e di queste deve avvalersi il poeta) e associata ad una naturale inclinazione melodica.

Canto e figura si fondono sempre meglio nello sviluppo della sua poesia, dalle canzonette piú giovanili, di rara finezza melodica e piene di vivaci e piacevolissimi quadretti naturali, collegati a movimenti patetici oscillanti tra letizia e tenue malinconia, come avviene esemplarmente, con una singolare eleganza chiara e brillante, nell’Inverno con il suo inizio incantevole («La neve è alla montagna / l’inverno si avvicina...») e nella sequenza di agili e nitide strofette con le loro figurine sensibili e i loro particolari naturali ben distinti, evidenti, caldi di piacere della realtà (il faggio con la sua ombra e le foglie che cadono, l’alito della lepre che si converte in nebbia nel freddo mattino, la neve che brilla nella montagna), e sorretti da un ritmo elastico e mosso. E come poi, con maggiore novità rispetto alle piú consuete forme arcadiche e con maggiore prevalenza delle figure femminili e del rilievo sensibile del loro fascino di bellezza, nelle elegie e negli «endecasillabi» piú tardi, composti in una metrica che tendeva ad avvicinarsi a quella dei classici antichi e che coronava l’attività poetica rolliana con una capacità di canto e figura, di nitida espressione di un piacere elegante e raffinato che appare sempre piú affiatata al gusto pittorico rococò trionfante verso la metà del secolo, con il suo miniaturismo frizzante e fluido ben adatto ad una società squisita e in via di crescente sviluppo di libertà di spirito e di edonismo, convinta dei propri diritti in una visione della vita attiva e lieta.

Piú esteriormente vistosa e imponente, ma intimamente piú mediocre ed eclettica, si presenta infine l’opera poetica del genovese Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768), ammiratissimo dai suoi contemporanei per la sua prontezza di rimatore d’occasione (rime per nozze, monacazioni, feste principesche) esercitato specie nella sua lunga permanenza, come poeta di corte, a Parma, dove egli venne adeguando la sua poesia arcadica e il suo sostanziale epicureismo godereccio e sensuale ai nuovi gusti eleganti e intelligenti introdotti in quella città dalla corte borbonica venuta di Francia. Cosí, passando dalla canzonetta e dai sonetti amorosi e occasionali a certo gusto di solennità scenografica e storica (di cui è esempio significativo il celebre sonetto su Annibale fermo a rimirare dalle Alpi l’Italia prima di scendervi con le sue armate devastatrici) o alla discorsività dei componimenti in endecasillabi sciolti dedicati a descrivere o momenti della sua vita o soggetti di tipo scientifico e filosofico-morale (secondo una moda che vedremo piú affermarsi nel didascalismo dell’epoca illuministica di secondo Settecento), il Frugoni (in Arcadia Comante Eginetico) apparve ai contemporanei come un formidabile creatore di poesia «immaginosa», varia e molteplice di aspetti, di toni, di metri. Ma in realtà tanta varietà e disponibilità non aveva profonde ragioni intime e la sua opera rimane nel suo insieme assai farraginosa e prolissa, e, se le sue novità metriche e tonali non rimasero senza influenza nella poesia di secondo Settecento, la sua vena piú caratteristica rimane quel piacere di un canto orecchiabile e di una visione godereccia ed epicurea della vita, specie nel suo aspetto galante-erotico, che si esprime soprattutto nelle sue canzonette colorite e canore (tipico in tal senso il tema della partenza per la beata isola di Venere).

Con l’opera del Frugoni la lirica arcadica esaurisce le sue risorse come in un campionario sontuoso e mediocre dei suoi modi e delle sue possibilità, mentre già in quella stessa opera – in forma di moda piú che di persuasione – spuntano motivi piú audacemente libertini o modi di divulgazione poetica di nuove idee che si aprono alle diverse condizioni del secondo Settecento.

5. Il teatro tragico e la commedia

Il campo in cui la volontà di «riforma» e di rinnovamento, tipica della letteratura arcadica, si esercitò piú tenacemente, anzitutto con discussioni teoriche e critiche, fu il teatro, che gli arcadi sentivano come la forma di piú efficace contatto con il pubblico, come lo strumento piú adatto per un’educazione non solo artistica, ma anche morale della società del tempo. Tale attività di discussione fu particolarmente appassionata, e feconda di spunti teorici validi anche in campo europeo, nei riguardi del teatro tragico, in cui gli arcadi non potevano non riconoscere la grande superiorità della tragedia francese del Seicento (Corneille, Racine ecc.) e tanto piú – nella loro gara con la letteratura francese – ambivano alla costituzione di un teatro italiano capace di superare appunto quello francese. Ma alla finezza e fertilità delle idee sulla poesia tragica quali si espressero nei numerosi scritti teorici del Muratori, del Gravina (o di quell’Antonio Calepio che con il suo Paragone della poesia tragica in Italia con quella di Francia offrí importanti stimoli alla meditazione estetica europea) non corrispondeva una effettiva disposizione tragica di una letteratura e di un’epoca piú naturalmente volte (come abbiamo già visto parlando della lirica e del genere dei caratteri dell’Arcadia) ad espressioni di gentilezza idillica ed elegiaca o semmai ad un gusto ironico e comico privo di grandi passioni e di vera tensione drammatica. Sicché l’ambizione a creare una nuova tragedia rimase appunto un’ambizione velleitaria, sia che gli scrittori che vi si applicarono tentassero una severa ripresa dei grandi modelli classici greci (e già accennammo all’esito poeticamente povero e scarno delle cinque tragedie del Gravina, pur cosí interessanti contenutisticamente e culturalmente per i loro temi politici e morali), sia che scegliessero una forma piú moderna e piú vicina a quella del teatro francese – sin nel verso, arieggiante l’alessandrino francese il chiamato martelliano – come fece il Martello nelle sue numerose tragedie, che in realtà trovano (come nell’Ifigenia in Tauris) i loro momenti piú attraenti quando ripiegano su toni idillici e melodrammatici, su scenette piú realistiche e patetiche. E alla fine anche la Merope (1713) del Maffei (v. cap. XXI, paragrafo 5), salutata come capolavoro del nuovo teatro, non supera la qualità decorosa e media di un abile equilibrio di moderato classicismo e di moderna discorsività e scioltezza teatrale, di volontà tragica e di effettiva prevalenza di affetti familiari e patetici risolti nel “lieto fine” tipicamente arcadico e melodrammatico.

Migliori certo le piú tarde tragedie di Antonio Conti, che (non senza qualche stimolo del grande teatro shakespeariano da lui conosciuto nel suo soggiorno inglese) tentarono un tipo di dramma storico-politico (il Giulio Cesare, il Giunio Bruto, il Marco Bruto, il Druso) indubbiamente piú serio e robusto, ma che pure risulta appesantito da un’eccessiva minuzia di fedeltà storica e da una certa diluizione e prolissità che attenuano la forza dello scatto e dell’azione tragica.

Piú fertile di opere spesso assai gustose e vivaci e tali da costituire spesso come una premessa della «riforma» del teatro goldoniano risulta invece il teatro comico dell’epoca arcadica.

Anche nel teatro comico la volontà di riforma degli arcadi si pronuncia nettamente di contro alla commedia dell’arte, duramente attaccata per la sua mancanza di dignità e organicità letteraria, per la licenza improvvisatrice dei comici-maschere, per la sua prevalente scurrilità, a cui il “buon gusto” arcadico opponeva o una restaurazione della commedia “erudita” del Cinquecento, rimasta del tutto sterile e pedantesca, o, con piú felice senso di modernità, una commedia che (piú spregiudicatamente rinforzata dal grande esempio del teatro comico francese e soprattutto da quello di Molière e non chiusa a certa ripresa di forme di vivacità di azione della stessa commedia dell’arte) sapesse conciliare le esigenze arcadico-razionalistiche di maggiore organicità, di piú attento disegno psicologico, di moralità saggia e prudente con una effettiva vivacità comica e con la rappresentazione e la satira del costume contemporaneo.

In questa direzione, non priva certo di difficoltà e di limiti, si collocano anzitutto, negli ultimissimi anni del Seicento, le commedie in dialetto milanese del già ricordato Carlo Maria Maggi, che, specie nei Consigli di Meneghino, riuscí a dar vita a una rappresentazione comica e satirica della vita e dell’ambiente contemporaneo, attaccando i pregiudizi e la vanità boriosa e oziosa di certa nobiltà milanese e facendo esporre dalla voce pacata e dal buon senso umoristico del personaggio popolare di Meneghino i valori rinnovatori di vera socievolezza, di umanità e di spirito fraterno e cristiano.

Certo il limite di tali commedie era la stessa sincera spinta morale e religiosa del Maggi che, mentre sostiene una trama e un’azione assai diversa da quella di un semplice intreccio inteso al divertimento fine a se stesso (e rafforza la capacità dello scrittore di far vivere ambienti e personaggi in un sano ed effimero realismo), finisce spesso per prevaricare e diluire la forza artistica di rappresentazione e di azione scenica.

Sicché un piú sicuro istinto comico e scenico e una maggiore, anche se variamente geniale, modernità e scioltezza si debbono verificare in quella corrente di commedie in prosa che si situa nella letteratura toscana di primo Settecento, sempre meglio affiatata con il maturarsi della società in sviluppo fra resistenze arretrate, affermazione di nuovi valori e gli stessi eccessi di questi in forme di moda e di licenza criticabile e oggetto di comica rappresentazione.

Particolarmente originale, irrequieta e insofferente di limiti troppo prudenti o ipocriti alla nuova ricerca di libertà e sincerità nei rapporti umani e al maggiore avvicinamento della letteratura alla realtà, è la personalità del senese Girolamo Gigli (1660-1722), ricca di umori estrosi e risentiti, istintivamente disposta alla burla, alla polemica, al gusto del ridicolo e del grottesco, documentati, oltre che nella sua stessa vita difficile e scomoda, in numerosi scritti e opere non teatrali: come il Gazzettino, cronaca grottesca e satirica della vita romana del tempo, o il Vocabolario cateriniano, che – mentre difende ed esalta la pura lingua senese di s. Caterina contro la pretesa di assoluto predominio del fiorentino propria dell’Accademia della Crusca – si sbizzarrisce in battute e scenette comiche intese a dimostrare l’assurdità del divieto cruscante di adoperare certe vive ed efficaci parole senesi. Se la Crusca con la sua pedanteria linguistica è uno degli oggetti piú costanti della polemica del Gigli, piú significativa storicamente e piú profonda (nella sua violenta avversione per tutto ciò che gli appare innaturale, artificioso, falso) è l’ipocrisia e la falsa e interessata devozione, molto spesso identificata con il costume gesuitico e con la soffocante intrusione ecclesiastica nella vita delle famiglie. Si capisce cosí come nella lunga e disordinata attività teatrale del Gigli, ricca di autentico spirito comico, ma piú spesso poco controllato ed eccessivamente caricato, campeggi, per una piú sicura e centrale identificazione dei suoi obbiettivi satirici e comici, la commedia Don Pilone. Questa, riprendendo lo schema del Tartufo di Molière e trovando in quello un appoggio, una misura di piú salda costruzione, rappresenta con grande efficacia le arti ipocrite e immorali del falso devoto (Pilone o «baciapile») che stanno per provocare la rovina di una facoltosa famiglia senese in un’azione comica mossa e densa, realistica e incisiva nella caratterizzazione dei personaggi.

La forza felice del Don Pilone (che il Gigli non ritroverà piú neppure nella Sorellina di Don Pilone, troppo legata a vicende autobiografiche e alla satira della propria moglie, avara e bigotta) è assai superiore alla vena comica degli altri due commediografi toscani, il Fagiuoli e il Nelli i quali tuttavia con le loro commedie appaiono (specie il secondo) piú strettamente legati agli elementi di maggiore regolarità, vivacità prudente ed elegante del gusto arcadico nel suo sviluppo piú maturo.

Il fiorentino Gian Battista Fagiuoli (1660-1742) cercò – in mezzo ad una produzione assai vasta e prolissa di prose e di versi burleschi – la piú adatta espressione del suo spirito osservatore, arguto, ma intimamente mediocre, sia nelle forme di commedie rusticali (in cui si incontrano il gusto tradizionale della ridicola e spropositata lingua campagnola e un modesto compiacimento per il buon senso naturale di personaggi contadini arguti, schietti e naturali), sia nella forma di piú ambiziose commedie cittadine, come il Cicisbeo sconsolato, che tentano la rappresentazione comica di una società e di un costume in progresso, ma insidiato dalla frivolezza delle mode importate dall’estero e da nuovi rapporti (come appunto quello dei «cicisbei» o cavalier serventi) che, sotto l’aspetto di una maggiore libertà femminile, finivano per alterare e guastare i piú saldi e naturali vincoli coniugali e familiari.

Piú attento alla comicità insita nelle situazioni e piú capace di un ritmo di azione e di scena, che pare a volte preludere di lontano al Goldoni e alla sua «riforma», è il senese Jacopo Angelo Nelli (1673-1767), che realizza (pur mancando dell’estro piú vigoroso del Gigli) un tipo di commedia elegante, tecnicamente ben costruita, coerente nell’azione e nei caratteri dei personaggi, ben collegata con la vita contemporanea e con le crescenti esigenze di una moderata libertà e di una letizia vitale ottimistica e saggia, insaporita dal calore e dal gusto della realtà, anche se lontana dalla forza innovatrice e dal livello storico e poetico della commedia goldoniana. Tale appare la commedia Le serve al forno, coi suoi personaggi umili (serve, servi, e fornai) e i loro pettegolezzi sui propri amori e sulle complicate vicende dei loro padroni, o soprattutto La suocera e la nuora, incentrata, nell’interno di una agiata casa borghese, sul contrasto di età e di ambizioni, sui litigi delle due donne cui mette fine la saggezza bonariamente severa dei due mariti.

Con simili commedie i letterati di Arcadia potevano pensare di aver vinto la gara con la vecchia commedia dell’arte e di aver restaurato un teatro comico anzitutto nobilitato dalla sua natura di opera interamente scritta e conciliante vivacità e regolarità, intento educativo e forza comica.

Ma la vecchia commedia dell’arte non aveva ancora esaurito la sua forza di attrazione di fronte a un pubblico piú vasto e popolare e continuava a dominare le scene dei piú grandi teatri pubblici, mentre molte delle commedie ricordate rimanevano confinate nei teatrini di corte o in quelli privati di ricche famiglie, e dunque rivolte di fatto a un pubblico piú ristretto e socialmente selezionato: condizione che, per quanto riguarda la commedia, sarà rotta definitivamente solo dal grande Goldoni. Vi fu perciò chi, come Pier Jacopo Martello (Bologna 1665-1727), già ricordato per i suoi tentativi tragici e per il suo canzoniere, ritenne che una vera conquista di piú largo pubblico fosse impresa disperata e, nella sua intelligentissima e sensibilissima spregiudicatezza – dimostrata anche in componimenti satirici o in prose di finissima e agile fattura (come soprattutto il dialogo Il vero parigino italiano, che ridimensionava, con cauto e brioso equilibrio, le ragioni e i torti delle polemiche italiane contro i francesi e di questi rilevava il gusto e il costume piú moderno e disinvolto) –, volle senz’altro rivolgersi ad un tipo di piccole commedie «per letterati» raffinate e briose, certo da considerarsi fra le produzioni piú gustose e abili della letteratura arcadica.

Sarà soprattutto il caso della commedia Che bei pazzi!, che associa, in un’azione gracile, ma spiritosissima, la vivida satira della volubilità amorosa delle donne a quella, piú rilevata, delle infatuazioni femminili per le varie mode letterarie contemporanee, per le varie maniere poetiche arcadiche di cui fa una vivacissima parodia. Ma anche piú persuasiva e avvincente risulterà la commediola Lo starnuto di Ercole, destinata a un teatro di burattini (e si ricordi che il giovane Goldoni la rappresentò appunto con burattini nel castello di Vipacco ottenendo grande successo) e impostata nella rappresentazione fiabesca, ironica e parodistica, del piccolo mondo dei pigmei alle foci del Nilo, miniaturisticamente ed estrosamente raffigurati nelle minuscole proporzioni del paesaggio colorito ed esotico, dei piccoli personaggi che cavalcano uccellini variopinti e riproducono, con una graziosissima parodia, le varie passioni e i vari tipi degli uomini nella loro minuscola umanità: damine sventate e civette, mariti gelosi, cacciatori e guerrieri sdegnosi dell’amore, appassionati e svenevoli innamorati, tenebrosi politici, cortigiani intriganti, sacerdoti impostori. Finché in quel piccolo mondo capita il gigantesco Ercole che, dopo aver suscitato un curioso affaccendarsi di intrighi e passioni dei pigmei per sbarazzarsi dell’incomodo ospite, risolverà la tenue e leggerissima azione, incantevole per scenette e ritmo generale, anch’esso come abbreviato e miniaturistico, con un poderoso starnuto che manderà all’aria tutto quel mondo di pigmei che lo circondano.

6. Il melodramma nel primo Settecento

Nei loro tentativi di gara con i grandi tragici francesi (Racine e Corneille) e di creazione di un teatro tragico italiano degno delle loro velleitarie ambizioni i riformatori arcadici combatterono in generale quel dramma per musica che dalla fine del Cinquecento dominava i teatri italiani e che agli arcadi ripugnava (specie nelle forme piú spettacolari del Seicento) come un’opera ibrida e corrotta, in cui la poesia del libretto non solo era nettamente subordinata al predominio della musica e della scenografia, ma in se stessa aveva accolto il gusto barocco del meraviglioso e delle situazioni straordinarie e «inverosimili» e una mescolanza di tragico e di comico, contraria ai nuovi ideali di espressione poetica coerente e regolare, piena di decoro e di verisimiglianza. Eppure, come s’è già visto in certo sonettismo, dello Zappi e della Maratti, un sincero, istintivo gusto melodrammatico viveva nella sentimentalità arcadica patetica e ottimistica.

Sicché può comprendersi come, in contrasto con le accuse teoriche al melodramma, la poesia arcadica potesse trovare i suoi esiti piú genuini e sinceri proprio in quel melodramma «riformato», che, pur servendosi dell’ausilio della musica e della scenografia, cercò anzitutto nello stesso libretto poetico la sua particolare musicalità e la sua espressione di affetti, il suo effetto di vicenda scenica ricca di sospensioni, di alternanza di momenti drammatici e di risoluzioni felici, cosí congeniale allo spirito del tempo e al gusto del pubblico. E se la riforma del melodramma trovò inizio in forme piú incerte e rigide ad opera del veneziano Apostolo Zeno (1669-1750, a lungo «poeta cesareo» alla corte di Vienna), il vero trionfo della poesia melodrammatica fu attuata da Pietro Metastasio, che nei suoi melodrammi portò la poesia arcadica alle sue punte piú alte e coerenti, pur nel limite fondamentale di un’epoca piú viva nel gusto della chiarezza razionale ed elegante e del sentimento patetico, che non nella forza della grande poesia costruita su affetti e pensieri profondi a cui pure avevano aspirato un Vico o un Gravina.

7. La vita del Metastasio

Proprio il Gravina del resto intuí la natura poetica del giovinetto Pietro Trapassi (nato a Roma da padre umbro nel 1698), dedito fin dall’infanzia ad una prodigiosa attività di poeta improvvisatore, che lo aveva presto imposto, povero e di umilissime origini, all’ammirazione dei salotti romani. Il Gravina lo adottò, grecizzò il suo cognome in Metastasio, lo affidò all’educazione filosofica cartesiana del Caloprese in Calabria e, morendo, lo fece erede principale del suo notevole patrimonio. Egli lo aveva avviato al culto dei classici e a un tipo di poesia severa e solenne in cui il giovane si era mosso inizialmente, dandone prova in una tragedia, Giustino, e in vari componimenti chiaramente classicistici e didascalici come la Morte di Catone o lo Spirito delle leggi. Ma poi, liberato dalla tutela graviniana (che pur lasciò in lui tracce importanti nella ricerca costante di una trama coerente e ben costruita, in un gusto mai smentito di sentenziosità, nella scelta di un linguaggio chiaro e perspicuo, filtrato attraverso l’esempio dei classici), il giovane poeta si volse piú liberamente a letture piú congeniali (Tasso e Guarini anzitutto) e a componimenti poetici (epitalami, cantate, serenate, brevi azioni teatrali) orientate, insieme, ad un gusto fortemente cantabile e immaginoso, all’espressione di sentimenti idillici ed edonistici che venivano preparando l’eccezionale orecchio musicale e la tematica patetica con cui il Metastasio venne costruendo le sue prime e piú esili e brevi prove melodrammatiche; l’Endimione e gli Orti esperidi (fra 1720-1722) rappresentate a Napoli. Dove il Metastasio era passato a vivere, prima cercando risorse economiche (ché l’eredità del Gravina si dissolse presto anche a causa di liti giudiziarie con altri eredi) nell’attività forense, poi direttamente inserendosi nel cospicuo mondo teatrale e musicale napoletano. In quel mondo egli conobbe celebri musicisti (come il Pergolesi, lo Scarlatti, il Porpora), famosi cantanti (come il Broschi, detto il Farinello, e Marianna Bulgarelli, detta la Romanina) che contribuirono alla sua educazione musicale e teatrale e lo confortarono con la loro amicizia nel difficile avvio della sua professione di poeta teatrale.

Specie la Romanina, legata a lui da un lungo e amoroso sentimento, lo aiutò e stimolò nella composizione del suo primo vero melodramma, la Didone abbandonata, che fu rappresentato nel 1724 con la musica del Sarro e l’interpretazione abilissima della stessa Romanina, e ottenne un enorme successo.

Si apre cosí la lunghissima carriera teatrale del Metastasio che, a Napoli e poi a Roma (dove rientrò nel ’27), alacremente allestí melodrammi rappresentati in tutta Italia e specialmente nel grande centro teatrale di Venezia e visse, nella vicinanza affettuosa della Romanina, gli anni certamente piú fervidi e socievoli della sua vita, i piú ricchi di amicizie, di affetti, di letizia, nel caldo e colorito paesaggio napoletano e romano e in un ambiente frequentato nei suoi vari strati fino a quello popolare, da cui del resto il Metastasio proveniva e di cui sempre ritenne certa vena piú colorita e comica filtrata nell’educazione alto-borghese e aristocratica delle sue frequentazioni piú illustri.

Il grande successo dei suoi melodrammi gli procurò l’invito a succedere, a Vienna, allo Zeno nella carica di poeta cesareo. Cosí il Metastasio passò nel 1730 a Vienna alloggiando nell’ospitale casa del napoletano Antonio Martinez e creandosi un ambiente di scelte amicizie e affettuose protezioni, da quelle dei suoi “padroni” imperiali (prima Carlo VI, poi Maria Teresa e infine Giuseppe II) a quella – che prese l’aspetto di una vera e propria relazione amorosa – di Marianna Pignatelli, vedova del conte d’Althann, che prese il posto della relazione con la Romanina, morta in Italia nel 1734, e la cui ricca eredità egli rifiutò, per convergenti ragioni di decoro e di intima onestà, a favore del marito della morta amica.

I primi anni viennesi, come vedemmo, costituiscono la fase culminante della sua poesia, in un periodo in cui il Metastasio uní alla spinta del suo impegno di poeta di una delle maggiori corti europee il propizio incentivo di una vita colma di onori, confortata dall’amore per la d’Althann (nella cui villa in Moravia egli trascorreva deliziosi autunni di idillica quiete campestre), e la stessa nostalgia per l’Italia che rifluiva nella pacata tensione della sua poesia e che egli rianimava nell’assiduo e mai interrotto carteggio con vecchi amici e ammiratori italiani della sua opera.

Morta poi nel ’55 la d’Althann – e accresciuta la solitudine del poeta e il suo dissenso con il secolo sempre piú arditamente riformatore (specie sotto il governo di Giuseppe II) e sempre piú diverso dall’epoca arcadico-razionalistica di primo Settecento in cui il Metastasio aveva trovato il suo tempo piú congeniale –, la lunga vecchiaia del poeta, la decadenza consapevole della sua ispirazione portarono nella vita del Metastasio ombre e amarezza crescenti pur contraddette da una sostanziale saggezza, da alcune rare persistenti amicizie e dall’affetto filiale della giovane Marianna Martinez, figlia del suo ospite.

Morí il 12 aprile 1782, ormai sopravvissuto alla sua arte da tempo effettivamente conclusa e, ripeto, al tempo storico a lui piú congeniale, e che egli vedeva, con occhi preoccupati di conservatore, sempre piú cambiarsi verso gli esiti rivoluzionari dell’illuminismo, verso lo sconvolgimento di quell’ordine provvidenziale razionalistico-paternalistico e di quell’incontro prudente e limitato di dominio della ragione e di libertà della natura, a cui il suo animo e la sua educazione avevano aderito con fervore e con sincere risposte poetiche.

8. Mentalità e poetica del Metastasio

Va infatti ben chiarito fin da ora (per poi rivederne i riflessi nello svolgimento effettivo della sua attività poetica), come il Metastasio e la sua poesia vadano intesi nel loro accordo fondamentale con l’epoca arcadico-razionalistica, sia nelle sue prospettive di prudente progresso e di ordine razionale e naturale confermato dalla fede in una provvidenza benefica in cielo e da una regolata e legale civiltà assolutistico-paternalistica in terra (sicché il Metastasio fu poeta cortigiano per convinzione e sicurezza di una missione tutt’altro che spregevole), sia nella sua generale fiducia ottimistica che pur conosceva le pene e le miserie della condizione umana, ma le inquadrava in un generale trionfo del bene e della saggezza sia, infine, nella sua tensione ad una poesia che – pur ambiziosa di ammaestramento (quante “sentenze” e “massime” si possono ricavare specie dalle “ariette” dei melodrammi!) – mirava, con l’ausilio di una disciplina stilistica e di una esperienza teatrale tutt’altro che superficiali, a tradurre poeticamente, con un linguaggio nitido, semplice, elegante, fortemente comunicabile, gli ideali del tempo in opere contraddistinte da una singolare chiarezza razionalistica e da un naturale fervore di affetti, còlti soprattutto nel loro diagramma di speranze e timori, di momenti drammatici e di sereno e ottimistico lieto fine.

Di tali ideali di vita limitati, ma sinceri e storicamente giustificati, è documento importante l’abbondantissimo epistolario metastasiano, che – mentre costituisce un esempio notevolissimo della prosa di primo Settecento, nella sua versione di eleganza e nitidezza, di sorridente grazia e di pensosa meditazione – rappresenta appunto un vivacissimo e mobile ritratto dell’uomo, delle sue convinzioni, della sua saggezza sorridente e pur non frivola, del suo amore per una vita civile, educata e spontanea, cosí come (già si diceva) dei suoi limiti storici: ben avvertibili nelle lettere della senilità quando il Metastasio si oppose amareggiato allo svolgimento del razionalismo in illuminismo combattivo ed eversivo, agli eccessi di libertà forieri di prossime rivoluzioni, nonché all’eccesso del sentimentalismo e del gusto preromantico del macabro e del tetro che gli apparivano pervertimenti inammissibili di quella regolata e prudente libertà della ragione e del sentimento cui tanto egli aveva aspirato nella sua mentalità ottimistica e misurata fino a certo chiaro limite di saggezza un po’ avara e mediocre.

D’altra parte alcune delle sue lettere (come poi il tardo trattato Estratto della poetica di Aristotile e le note alla traduzione dell’Ars poetica di Orazio) ben delineano le sue preoccupazioni di artista, la sua idea arcadica della poesia come incontro di natura e ragione, la sua avversione all’inverosimiglianza e agli eccessi immaginosi barocchi, il suo amore per un linguaggio semplice ed elegante, melodico, comprensibile ed eletto, frutto di lungo studio e di scelta assidua, confortato dagli esempi dei classici.

E soprattutto alcune delle lettere e quei trattati ben rivelano la fondamentale disposizione teatrale del poeta melodrammatico, le sue preoccupazioni di regista delle proprie opere, di subordinazione della musica ai nuclei espressivi del testo poetico, in modo che la poesia non fosse piú “serva”, ma “padrona” della musica e offrisse a questa già di per sé una sostanziale base affettivo-melodica che la musica avrebbe dovuto sottolineare e non sopraffare.

Quanto poi profondi fossero nel Metastasio l’istinto e la vocazione teatrale e scenica può dimostrarlo quel piccolo capolavoro del suo epistolario (riportato nell’antologia di questo volume) che è la lettera scritta da Vienna alla Romanina sul carnevale romano e in cui la nostalgia e il ricordo si tramutano nella duttile ed elegante forza costruttiva di un quadro animato, preciso, incantevole, in cui ogni voce ha il suo accento e presuppone un movimento scenico, un’impostazione di prospettiva e di dialogo teatrale. E del resto le stesse celebri canzonette, la Libertà e la Partenza (la prima del ’35, la seconda del ’46), che rappresentano il culmine della lirica arcadica, il trionfo del cantabile e del patetico nel loro incanto di limpida voce di affetti misurati, teneri e sottilmente ironici, sono pure chiaramente costruite in un’ideale dimensione scenica e in uno schema sottile di piccolo melodramma.

Nella Libertà la situazione della liberazione da un amore tirannico è svolta in una lucida e melodica articolazione di strofette agili ed elastiche fra risoluzione, perplessità, causata dal persistente fascino della bella dama, decisiva riaffermazione della volontà liberatrice, sullo sfondo di un paesaggio ridotto in forme di quinte sceniche (la selva, il colle, il prato) e in un movimento psicologico acuto, espresso in una forma di monologo teatrale. Nella Partenza, il poeta punta sul «fiero istante» del congedo dalla donna amata e di questo tema svolge finissime variazioni, gradazioni melodiche-psicologiche di sentimenti recuperati nel ricordo struggente e nel suo contrasto con il presente doloroso, mentre il ritornello fisso («e tu chi sa se mai / ti sovverrai di me») porta a questo congedo-distacco melodrammatico l’aggiunta melodiosa e indimenticabile di una prefigurazione elegiaca (non tragica) della futura vita spensierata e volubile dell’amata.

9. La poesia melodrammatica metastasiana e il suo sviluppo

Eppure le due canzonette non sono certo i veri capolavori del Metastasio, che vanno invece ricercati nella piú diretta via del melodramma, dell’opera teatrale, al cui perfezionamento di schema e di fusione il Metastasio lavorò, con sapienza laboriosa e con ispirazione crescente, specie nel piú fecondo periodo che va dalla Didone abbandonata ai primi melodrammi viennesi, culmine della sua poesia patetica e musicale.

Certo la Didone (con cui, come abbiamo già detto, il Metastasio esordí nel teatro e colse il suo primo grande successo) ha uno slancio esuberante e fervido, un piú forte urto fra i personaggi piú rilevati nelle loro diversità (Jarba, barbarico e senza scrupoli, Araspe, generoso ed eroico, Selene, malinconica e altruistica, vittima di un amore celato e rinunciato a favore della sorella), e soprattutto una vitalità volitiva (e uno spicco tanto piú forte nei confronti del “perplesso” Enea) nella protagonista Didone, imperiosa e capricciosa, irruente e volubile, trapassante dall’odio all’amore piú appassionato. Ma mancano a quest’opera, piú diseguale anche nel linguaggio, la misura e la circolarità, la perfezione del rapporto fra personaggi e destino volubile e perturbante (e la ripercussione di questo rapporto fondamentale nella sottile linea di ondeggiamento fra timori e speranze sino alla risoluzione felice del lieto fine) che saranno raggiunti interamente solo nei capolavori della maturità.

A questi il Metastasio si venne avvicinando attraverso una lunga serie di melodrammi (dal Siroe al Catone in Utica, dall’Ezio alla Semiramide, all’Alessandro nelle Indie, all’Artaserse, al Demetrio, all’Issipile e all’Adriano in Siria) che, con varia forza ispirativa, rappresentano altrettante prove della sua riforma del melodramma, della precisazione del suo linguaggio, dei suoi espedienti tecnici, dello schema melodrammatico, del rapporto fra recitativo ed «aria» reso sempre piú coerente e continuo: l’«aria» è infatti la risoluzione melodico-espressiva del recitativo, non un’aggiunta a sé stante, leggibile e apprezzabile nella sua isolata conclusione.

A parte i risultati piú parziali, raggiunti già in opere come l’Artaserse e il Demetrio, il gracile, ma sincero mondo poetico metastasiano trova la sua espressione piú sicura e la sua perfezione tecnica nei suoi due maggiori melodrammi: l’Olimpiade e il Demofoonte, del 1733.

L’Olimpiade è certo l’opera piú ammirevole del Metastasio (sempre nei limiti di una poesia gracile e sospesa fra realtà e sogno), il frutto piú maturo del lungo lavoro del Metastasio nello sviluppo degli affetti e delle situazioni patetiche, nella loro trama di oscillazioni fra speranze, timori e finale rasserenamento, a cui nell’Olimpiade serve la trama favolosa delle vicende e peripezie imperniate sull’amore di Megacle per Aristea, figlia del re Clistene, sul contrasto fra quest’amore ricambiato e l’amore che per Licida ha la pastorella Argene e quello che per Aristea nutre Licida, amico fraterno di Megacle, il quale, per tale profonda amicizia, accetta di sostituirsi all’amico nelle gare olimpiche (da cui deriva il titolo dell’opera) per conquistargli la mano di Aristea. Amore, amicizia, generoso altruismo si incontrano e si complicano fra di loro, provocando dolore e «palpiti» dei cuori giovanili presi e sollecitati in questa complicata vicenda, che tocca il limite del drammatico (quando Licida, che ha compreso parzialmente le conseguenze del suo inutile amore e crede morto il disperato Megacle, osa rivolgere il suo pugnale contro il re Clistene) per poi rapidamente eluderlo nel lieto fine: quando Argene si rivela per principessa e promessa sposa di Licida e questi è identificato come figlio di Clistene, e cosí viene perdonato dal padre, mentre si celebrano le nozze fra Aristea e Megacle, rivelatosi vero vincitore delle gare olimpiche.

Cosí riassunta, la trama appare estremamente improbabile e assurda, ma essa va considerata, come dicevo, nella sua funzione di calcolato disegno, i cui scatti e svolgimenti (precisi come quelli di un congegno ad orologeria) permettono lo svolgersi della trama poetica e delle sue situazioni patetiche, lo sgorgo limpido e armonico, e insieme vibrante e commosso, della vera materia poetica dell’opera: quelle vicende del “cuore” e degli affetti, dell’amore, dell’amicizia, del sentimento paterno e filiale che tendono la vita affettiva dei personaggi (tutti sostanzialmente elevati e puri) nel loro urto con un destino volubile e ostile che la sollecita alle sue vibrazioni piú affettuose e dolorose, risolte in una espressione melodica e limpida (si pensi soprattutto alla esemplare scena, riportata nell’antologia, dell’addio di Megacle ad Aristea e della sua suprema e reticente preghiera all’ignaro e turbato Licida nelle sue ultime parole ad Aristea svenuta), e che poi la rasserena e la placa nell’esito provvidenziale-ottimistico del lieto fine. Sottratto a paragoni rischiosi con opere tragiche ricche di forti passioni, di solidi personaggi, di salde storie drammatiche, e riletto invece nella sua vera prospettiva melodrammatica e patetica, questo piccolo capolavoro della poesia metastasiana e arcadica rivela la sua delicata e sottile bellezza, la sua fusione fra trama di vicenda e tessuto poetico-affettivo, la sua perfetta dosatura di ogni voce, la sua coerenza fra recitativi e arie, la sua qualità di linguaggio, povero e limitato se paragonato alla ricchezza e forza di ben altri tipi di poesia, ma in sé perfettamente chiaro e limpido, elegante e comunicabile, lieto e struggente, malinconico e fiducioso, come il patetico mondo affettivo che vi esprime i suoi sentimenti, le sue perplessità, la sua candida generosità e la sua saggezza gentile, istintiva e razionalmente educata.

In una direzione analoga, ma con un di piú di tensione patetico-drammatica che arricchisce e sforza la misura armonica dell’Olimpiade, si profila il Demofoonte, in cui il Metastasio volle complicare il diagramma melodrammatico con una specie di doppio lieto fine, intervallato da una piú forte ondata di sospensione drammatica, approfondí con una piú matura e pensosa nota di umanità e di passione coniugale (quasi piú moderna e borghese, anche se la scena è sempre una corte mitica e i personaggi sono regali e nobili) la vita sentimentale dei due protagonisti, Timante e Dircea, segretamente sposi e minacciati prima da una legge mitica che destinava Dircea alla verginità, pena la morte, e poi dalla rivelazione fallace di un loro legame fraterno (donde l’insorgere dell’orribile peso di un carattere incestuoso del loro amore invincibile), mentre il poeta introdusse felicemente anche una variante piú ingenua e quasi lievemente ironica della situazione amorosa, nella delineazione fresca e ariosa dell’amore (anch’esso contrastato e poi felicemente risolto) fra i giovanissimi Cherino e Creusa.

Ciò che conferma, a ben vedere, come il Metastasio poeticamente interpretasse gli ideali piú sinceri della sua epoca nella sua piú sincera attenzione al regno del patetico e nella sua fiducia ottimistica nella coincidenza di natura e ragione e nella loro convalida da parte di una forza provvidenziale sempre finalmente vittoriosa e giusta. Dal dramma nasce l’idillio, dalle pene sgorga il piacere, anche se la prudenza metastasiana e arcadica lo presenterà sempre come virtuoso e legittimato dalla ragione e dall’ordine provvidenziale delle cose e non certo come trionfo di passioni disordinate e ribelli.

Dopo questa espressione piú alta della sua poesia, il Metastasio par volgere lentamente al suo lungo declino, pur cosí fecondo di opere e di tentativi di piú forte ambizione tragica ed eroica, su cui egli puntò soprattutto negli anni immediatamente successivi all’Olimpiade e al Demofoonte, con melodrammi come la Clemenza di Tito (1734), il Temistocle (1736) e l’Attilio Regolo del 1740.

Già prima (soprattutto con il Catone in Utica del 1726) il Metastasio aveva tentato (riprendendo a suo modo l’insegnamento del Gravina e l’aspirazione di questo ad una tragedia eroica e severa) la tematica della virtú antica, della magnanimità di personaggi famosi della storia classica. Ora – in accordo con il suo compito di poeta cortigiano, educatore di nobili e di principi, di regnanti e di sudditi legati ad alti ideali di fedeltà cavalleresca, di eroismo, di giustizia e di magnanimità – il Metastasio tanto piú cercò di impegnare la sua poesia in opere piú severe ed esemplari, ricche di modelli di comportamento eroico e generoso fino all’eccesso.

Ma non era questa la tematica piú congeniale alla piú vera natura della sua umanità e della sua poesia, che poteva sí ben utilizzare elementi di nobiltà e di virtú e anche di eroismo e di altruismo per creare un clima eletto e aristocratico ai sentimenti patetici e amorosi cui piú direttamente e originalmente era rivolta, ma non era assolutamente in grado di sostenere un mondo di affetti nudamente eroici e tragici, passioni energiche e severe. Sicché su tale strada il Metastasio finiva per cadere nell’eccesso, a volte quasi ridicolo, di casi straordinari di forza d’animo, di generosità senza limiti e fino al paradosso, cui contrastava la stessa piú genuina natura melodica del suo linguaggio ben diversamente adatto alle pene e alle gioie del cuore palpitante fra speranze e timori nell’ambito di sentimenti amorosi e patetici.

Ne scaturiva un eroismo astratto, paradossale, privo di intime ragioni morali e storiche, e lo stesso Attilio Regolo, che è certo di questo tipo di produzione metastasiana l’esempio piú alto e tecnicamente elaborato, non può superare un giudizio appunto di abilità e bontà tecnica, tanto sostanzialmente frigida e ampollosa risulta la gara vittoriosa della virtú e del “dovere” del protagonista con le tentazioni della vita e degli affetti familiari.